Poco conosciuta e di cui non si parla abbastanza. L’anemia falciforme è una di quelle patologie del sangue ancora devastanti per tutte le fasce d’età coinvolte: dai bambini agli adulti. Per chi non sapesse nello specifico di cosa si tratta, è una malattia genetica ereditaria che prende il nome dalla forma che assumono i globuli rossi a seguito della rigidità e viscosità che li caratterizzano: a mezzaluna o a falce, appunto. Questa irregolarità, oltre a renderli facilmente aggregabili, ne ostacola il movimento nei vasi rischiando addirittura di bloccare il flusso sanguigno. Il risultato è una mancata circolazione nei tessuti, con conseguente morte delle cellule, dolori per il paziente e grave forma di anemia. Ha origine dalla mutazione di un gene che controlla la produzione di emoglobina e può essere trasmessa al feto se entrambi i genitori ne sono portatori sani.
Ad oggi la terapia principale è quella che si basa sulle trasfusioni o sul trapianto di midollo e cellule staminali, sia per i bambini in fase cronica che per gli adulti in quella acuta. In tal senso una testimonianza tanto preziosa, quanto toccante, la fornì ad AVIS Nazionale Agathe Wakunga, una giovane donna di origini congolesi e paziente drepanocitica, nel corso del convegno “Senza confini” del febbraio 2020 a Padova.
Grazie all’impegno dei donatori sono molti i passi in avanti che la ricerca sta compiendo per contrastare queste forme, tra cui quello che vede un centro italiano come capofila: l’università di Verona. Con la professoressa Lucia De Franceschi, del Dipartimento di Medicina dell’AOU e referente di Eurobloodnet (la Rete europea delle malattie rare) per le anemie rare, abbiamo provato a spiegare come i due nuovi farmaci approvati dalla FDA e in attesa di via libera dall’EMA (finora l’ok è arrivato solo per uno) possano agire per contrastare la falcificazione e le trombosi.
La professoressa Lucia De Franceschi
Professoressa, quali step hanno caratterizzato lo studio e come siete giunti a questo risultato?
«Come università siamo inseriti in una rete di ricerca clinica, Eurobloodnet, di cui io sono referente per le anemia rare, mentre il direttore è il professor Olivieri. Siamo impegnati anche a livello pre-clinico in termini di emoglobinopatie. In questi due grandi gruppi di ricerca abbiamo condotto studi osservazionali per valutare al meglio il profilo dei pazienti e delineare le strategie terapeutiche più efficaci in base ai vari casi. Voxelotor e Crizanlizumab sono i due farmaci che la FDA (la Food and drug administration, l’equivalente americano della nostra AIFA, ndr) ha approvato, mentre l’EMA (Agenzia europea per i medicinali, ndr) ha dato l’ok solo al secondo. Si tratta di due medicinali che servono, rispettivamente, a impedire la falcificazione e a prevenire le trombosi. Entrambi sono il frutto di studi multicentrici e multinazionali di cui siamo parte attiva».
Quando è iniziato lo studio e quanti pazienti ha coinvolto?
«I primi passi risalgono a una decina di anni fa, poi negli ultimi cinque è iniziato il trial di fase 1, 2 e 3. Noi siamo il centro capofila, ma collaboriamo insieme alla Statale di Milano, al Centro Microcitemie di Torino, al Galliera di Genova, alla Pediatria dell’università Vanvitelli di Napoli e al Cervello di Palermo. Sono stati arruolati 250 pazienti, un numero elevatissimo se si considera la ristrettezza dei profili di chi può essere coinvolto».
Che situazione si trova di fronte, oggi, una persona drepanocitica? Che accesso alle cure ha?
«Nel nostro Paese il panorama è un po’ particolare. In alcune zone come Calabria e Sicilia ci troviamo di fronte a casi endemici. Molte altre situazioni riguardano invece i cosiddetti nuovi cittadini, i rifugiati che provengono da zone come l’Africa subsahariana o altri territori in cui questa patologia è ancor più diffusa e che hanno una famiglia nella quale l’anemia è stata trasmessa ai figli. Tutto ciò ci porta a dover valutare attentamente l’attività trasfusionale e a sviluppare nuove strategie terapeutiche. Oggi in Italia sono circa 2mila i pazienti con una diagnosi sicura, ma c’è una parte di sommerso che sfugge alle maglie dei centri di riferimento o perché ha sintomi vaghi o perché fatica ad essere intercettata. I motivi di questo fenomeno sono molti, in primis la paura».
Cosa è necessario fare, quindi, per far emergere questo sommerso?
«È fondamentale formare e informare, sia i medici di base che i pediatri e quelli dei pronto soccorso. I pazienti devono essere intercettati il prima possibile e, anche in caso di accesso in ospedale per altre ragioni, è necessario riuscire a capire se una persona è affetta da anemia falciforme e avviare un percorso efficace per curarla. Più se ne parla e meglio è, così come per la talassemia. Siamo di fronte a una sfida culturale che dobbiamo vincere assolutamente».
Al momento l’unica terapia è rappresentata da trasfusioni o trapianto di midollo e cellule: una situazione possibile solo grazie ai donatori.
«L’approccio trasfusionale oggi è possibile per merito dei volontari. Stiamo parlando di vere e proprie procedure salvavita in particolare per i bambini in cui si usa la trasfusione cronica per proteggerli da forme ischemiche e conseguenti danni cerebrali, come deficit neurologici e cognitivi. Ma anche per gli adulti in fase acuta tutto questo rappresenta un qualcosa a cui non potremmo rinunciare nemmeno di fronte ad altre soluzioni terapeutiche».
Cosa può fare la ricerca con il sostegno del volontariato in tal senso?
«Può fare tantissimo, cominciando dall’ottimizzazione del contesto trasfusionale. Identificare i potenziali donatori è fondamentale soprattutto per fornire strategie in linea con le multiculturalità con cui abbiamo a che fare e le etnie diverse che caratterizzano i malati. Creare una rete di conoscenza della patologia e delle terapie specifiche per ciascun paziente è il modo migliore per consentire ai donatori stessi di poter rispondere nella maniera più efficace e soddisfare le esigenze di tutti».