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Dalla malattia al Servizio Civile in AVIS. La storia di Micol: «Grazie ai donatori sono qui»

Micol ha il morbo di Crohn e dal 2015 ha aperto una pagina Facebook in cui racconta la sua storia e il modo in cui affronta la malattiaMicol ha il morbo di Crohn e dal 2015 ha aperto una pagina Facebook in cui racconta la sua storia e il modo in cui affronta la malattia

Si chiama “Who’s next”. È il quinto album degli Who, gruppo britannico che iniziò la sua attività nella metà degli anni ’60 e considerato una delle maggiori band rock and roll di tutti i tempi. La traccia di apertura di quel disco, pubblicato nel 1971, si intitola “Baba O’Riley”. È un testo nuovo per l’epoca, probabilmente il primo ad affrontare problematiche giovanili. La storia di un ragazzo che si è dovuto fare da solo, che ha dovuto lavorare per vivere e “non ha bisogno di lottare per provare che ha ragione”. Non sempre però, nel mondo reale, funziona così.

Lottare, farsi largo fra le dicerie delle persone è spesso l’unico modo per far capire che siamo qui, che ci siamo anche noi e che anche noi abbiamo bisogno di ciò che non andrebbe nemmeno chiesto: rispetto e considerazione.

Micol Rossi ha 28 anni. È nata a Venezia, dove tuttora vive. Da quando ha 12 anni, come recita la canzone degli Who, “ha sudato per vivere”: prima la malattia del papà, poi la sua, diagnosticata tre anni dopo. Si chiama morbo di Crohn. È un’infiammazione cronica intestinale le cui cause sono ancora sconosciute: è caratterizzata da ulcere e, se non curata con attenzione, può portare a complicanze gravi come stenosi, fistole, fino all’intervento chirurgico. Nella maggior parte dei casi la malattia può essere controllata con terapie immunosoppressive. Dal 2015 ha aperto una pagina Facebook in cui racconta la sua storia e il modo in cui affronta la patologia: «È importante far capire che nessuno è solo – spiega Micol – e l’unico modo per riuscirci è condividere la propria esperienza con chi lotta per i tuoi stessi motivi».

Condividere, una parola che, insieme a “riconoscenza”, l’ha spinta a scegliere il Servizio Civile insieme all’Avis Provinciale di Venezia.

 

Come mai hai deciso di avvicinarti ad AVIS e al Servizio Civile?

«Il mio percorso di vita è stato diverso dagli altri fin da piccola. La malattia mi ha costretto a crescere più in fretta, pur passando tanto tempo in ospedale. Studiavo al liceo classico, il mio sogno era quello di entrare in Marina, ma per via del mio stato di salute non mi è stato permesso. Nel 2018 ho vissuto il momento più drammatico della mia storia: una trombosi mi ha generato un’emorragia interna. Non avevo più valori nella norma e mi sono dovuta sottoporre a una serie di trasfusioni. Per questo ho deciso di avvicinarmi ad AVIS. Nel 2019, in occasione del Carnevale, ho effettuato il volo dell’angelo dal campanile di San Marco, ribattezzato “Il volo dell’angelo guerriero” essendo vestita con un’armatura, in onore di tutte le persone malate. Da lì, in collaborazione con l’Avis Comunale di Jesolo, ho chiesto se ci fosse la possibilità di parlare in un liceo per raccontare la mia malattia: in quel momento ho capito che era fondamentale portare questa esperienza nelle scuole per far capire quanto siano importanti le donazioni».
 

Quali erano le tue aspettative e di cosa ti piace occuparti in particolare?

«Il Covid-19 ha stravolto un po’ tutti i piani anche a livello di Servizio Civile. Io ho iniziato a febbraio e, in particolare nella prima parte, non c’è stato modo di incontrare le persone e imparare tutti i meccanismi. Essendo io appassionata di tecnologia, mi occupo di gestire i profili social, soprattutto Instagram, e il sito dell’Avis Provinciale: l’obiettivo è quello di coinvolgere più persone possibili, in particolare i giovani, affinché il numero di donatori non diminuisca mai, anzi. Personalmente, per via della terapia che seguo, essendo immunodepressa lavoro principalmente da casa perché prendere i mezzi pubblici è sempre un rischio, soprattutto in un periodo come questo».

 

Micol Rossi

Cosa significa per te essere parte attiva di una realtà che fa della solidarietà e del volontariato i propri principi cardine?

«Per me è un onore avere un’occasione come questa. Sono convinta che per chi, come me, ha un’esperienza così forte da raccontare, sia un dovere dare agli altri un elemento per fare qualcosa di buono. I donatori e AVIS fanno proprio questo: donano una parte di loro a favore di chi ha bisogno. Se sono qui oggi e posso parlare è perché, nel 2018, mi sono potuta sottoporre alle trasfusioni. Perché c’era sangue per me. E il sangue c’era e c’è grazie ai donatori: se loro non ci fossero, io ora non sarei qui. Il loro dono mi ha permesso di vivere».

 

Quanto è stato importante secondo te il ruolo del volontariato nella fase dell’emergenza Coronavirus?

«Inizialmente le persone erano piuttosto diffidenti all’idea di dover uscire e recarsi in ospedale per donare. Per questo si è registrato un certo calo nelle scorte. La pandemia si è rivelata pericolosa non solo per i rischi di contagio, ma anche per le ripercussioni che ha generato su pazienti con patologie gravi come la mia. Il bisogno di sangue c’è sempre, ma in quei mesi è stato maggiore. Tutti però dovevamo unirci per far sì che la paura venisse sconfitta dalla forza e dal desiderio di compiere un gesto che aiutasse gli altri. Ecco perché il ruolo dei volontari è straordinario».

 

Dal 2015, attraverso la tua pagina Facebook, racconti la tua storia: quanto è importante condividere insieme a chi combatte la tua stessa battaglia?

«Credo sia fondamentale. Quando si parla di casi del genere, è importante far capire che non si è soli. Io ho iniziato prima su YouTube, poi ho aperto la pagina su Facebook. L’anno non è casuale, visto che nel 2015 ho subito il primo intervento chirurgico davvero complicato: in quel momento ho capito che non potevo restare indifferente, ma era necessario parlare. Non vergognarsi di nulla, anzi dare modo a chi è nelle mie stesse condizioni di parlare, confrontarsi e sentirsi appoggiato. L’unione fa la forza ed è questo lo spirito che ho trovato in AVIS».

 

Quale consiglio daresti a un giovane che si approccia al mondo del volontariato?

«Fare volontariato deve essere una cosa che si sente dentro. Dedicare una parte di sé agli altri significa crescere e fare del bene a noi stessi e a chi ci circonda. È importante che i giovani si facciano avanti e che capiscano che c’è bisogno di loro non solo come volontari, ma come donatori: il sangue è un bene prezioso, così come lo è AVIS. E questo bene non può e non deve finire».

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