Selezione del donatore e test dell'epatite B

Il modo più sicuro per ridurre il rischio di trasmissione dell'epatite B da trasfusione è quello di rilevare la presenza di due componenti del virus: l'antigene e il DNA. Lo dichiara il prof. Claudio Velati, presidente della SIMTI - Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia, che dalle colonne dell'ultimo numero della rivista scientifica "Blood Transfusion" illustra i risultati di una ricerca condotta recentemente da un'équipe di medici trasfusionisti. Abbiamo incontrato il dott. Velati per capire meglio gli esiti di questo studio. Professore, potrebbe spiegarci i vantaggi derivanti da questi due test? Si tratta di ricerche che puntano a rilevare la presenza di indicatori diretti dell'epatite. Il primo è un esame sierologico introdotto nel nostro Paese negli anni Settanta, che serve a ricercare una proteina di superficie del virus chiamata HBsAg, nota anche come antigene Australia. Il secondo, invece, è un test molecolare obbligatorio da due anni e mezzo, che rileva la presenza dell'acido nucleico, cioè il più valido indicatore della replicazione del virus. Nella ricerca da me coordinata abbiamo cercato di comprendere se questi due test fossero sufficienti a valutare l'idoneità alla donazione, oppure se fosse necessario integrare l'indagine con un ulteriore esame sierologico (il cosiddetto "anticore"), con cui possiamo individuare le risposte che l'organismo sviluppa in presenza del virus, cioè gli anticorpi che il sistema immunitario produce in caso di infezione. Dalle valutazioni fatte e dallo studio della letteratura esistente, siamo giunti a concludere che l'aggiunta di un ulteriore esame non dà un significativo valore aggiunto alla selezione. Inoltre, è opportuno sottolineare che i due esami descritti all'inizio coprono tutti i vari periodi cosiddetti "finestra", che rappresentano un pericolo per la trasmissione del virus attraverso le trasfusioni. Nell'articolo si afferma che la ricerca degli anticorpi determinerebbe l'esclusione di un'ampia percentuale di donatori. Potrebbe spiegarci questo aspetto? Fino a poco tempo fa si pensava che lo sviluppo delle difese immunitarie contro il virus dell'epatite B, se accompagnato dalla scomparsa totale dei segni di sofferenza del fegato, fosse un indicatore della guarigione e determinasse, quindi, l'idoneità alla donazione. Questa convinzione, ancora espressa nei criteri di selezione del donatore vigenti in Italia, è ormai tramontata in maniera definitiva. In Paesi del Mediterraneo come l'Italia, considerati a media-alta endemia di infezioni da epatite B e C, se andiamo a ricercare la risposta anticorpale (cioè i marcatori indiretti anti-HBsAg) troveremo una quantità decisamente elevata di soggetti che sono in ottime condizioni di salute, pur avendo avuto in passato un contatto con il virus. Nel caso dell'epatite B, ricordiamo che dal 1991 in Italia è obbligatoria la vaccinazione dei neonati e degli adolescenti al 12° anno d'età. Esiste, quindi, un ampio numero di donatori che non sono stati interessati da queste misure di prevenzione e che, pur avendo avuto un contagio, sono guariti. Se utilizzassimo il marcatore anti-HBsAg come criterio di selezione, dovremmo quindi eliminare molti soggetti che di per sé non sono trasmettitori del virus. Questo ci porta a concludere che il modo più diretto per verificare l'idoneità alla donazione è il ricorso ai test che rilevano la presenza dell'antigene e del DNA. Leggi l'articolo pubblicato su "Blood Transfusion" (in lingua inglese).