Sul plasma italiano l’Economist sbaglia Talvolta può succedere che anche una pubblicazione prestigiosa come l’Economist prenda una cantonata. In un articolo pubblicato lo scorso 10 maggio sul mercato mondiale dei farmaci plasmaderivati, in cui si fa il confronto fra i paesi che pagano i donatori e quelli, come il nostro, in cui invece la donazione è non remunerata, si afferma tra le altre cose che “Solo i paesi che pagano per il plasma sono autosufficienti. L’Italia, dove i donatori hanno una giornata libera dal lavoro, è vicina all’autosufficienza”.Nel contesto dell’articolo l’allusione contenuta nell’inciso è quasi offensiva, ed è smentita dai fatti, dal momento che meno del 20% dei donatori usufruisce di questa possibilità, che è comunque ben diversa da un vero e proprio pagamento. L’articolo però fornisce degli ottimi spunti per parlare della risorsa plasma, che è strategica per tutti i paesi e che vede alcune minacce nel futuro a medio termine.Il plasma, la componente liquida del sangue che si può ottenere per separazione da una sacca di sangue intero o si può donare direttamente con un processo che si chiama aferesi, ha moltissimi utilizzi. Il 20% circa del totale raccolto viene destinato a un uso clinico, il restante 80% viene invece conferito alle industrie farmaceutiche che lo utilizzano per produrre i cosiddetti farmaci plasmaderivati, come l’albumina o le immunoglobuline che vengono usate per trattare varie patologie, tra cui immunodeficienze e malattie epatiche, o i fattori della coagulazione, usati per la cura dell‘emfilia.Va spiegato ovviamente che non si tratta di un regalo al settore privato. Il plasma come i pure i farmaci che ne vengono ricavati restano di proprietà delle Regioni che pagano alle industrie soltanto la lavorazione. E non potrebbe essere altrimenti perché si tratta di farmaci importanti, spesso veri e propri salva-vita.Come correttamente affermato anche dall’Economist, l’Italia però dipende in parte dal mercato estero. Un mercato dove, al contrario che in Italia, il donatore viene spesso pagato per la donazione di plasma (vedi l’esempio tedesco). Parliamo di un mercato globale il cui giro di affari si stima di circa 18,5 miliardi di dollari (e non 126 come affermato dalla rivista), e che è in mano per lo più a industrie con base in America del Nord. A colpire è in particolare il disequilibrio nel rapporto tra popolazione e produzione di plasmaderivati. A produrre il 44% dei medicinali plasmaderivati è una zona geografica che ospita appena il 5% della popolazione. L’Asia e l’area del Pacifico invece contano il 57% della popolazione del pianeta ma producono il 19% dei medicinali plasmaderivati.È quindi anche possibile, in futuro, che il mercato finisca per prendere la via dell’oriente, dove dovrà soddisfare richieste sempre crescenti di paesi come la Cina o l‘India, paesi in cui il fabbisogno di immunoglobuline e albumina è già enorme e il sistema di raccolta interno non riesce minimamente a fare fronte alla mole di richieste e i pazienti non vengono, ovviamente, trattati in modo adeguato. Diventa quindi fondamentale affrontare il problema plasma e sensibilizzare il mondo dei donatori, del volontariato, del pubblico in generale sulla necessità di avvicinarsi di più all’autosufficienza perché la vita delle persone non può e non deve dipendere dal mercato e dalle sue leggi.Questa conclusione è opposta a quella dell’Economist, secondo cui invece “rendere legale il plasma a pagamento è l’ovvio primo passo”. Una posizione che, a parere di diversi esperti, non è assolutamente condivisibile, e che oltretutto si basa su dati inesatti. L‘articolo in questione, nota ad esempio Patrick Robert del Marketing Research Bureau, suggerisce che il plasma si raccoglie ancora nelle prigioni, pratica vietata dal 1999. Esagera i dati sui plasmaderivati esportati dalla Svizzera e anche il valore delle esportazioni di plasma dagli Usa, affermando che sono l’1,6% dell’export totale. Sbaglia persino nel descrivere la differenza tra il tempo di una donazione di sangue e una di plasma, affermando che per la prima servono 10 minuti e per la seconda 60, quando la ‘forbice’ è molto più ristretta. Il dibattito è aperto, ma deve essere portato avanti con dati più corretti. Articolo del direttore CNS, Giancarlo Liumbruno,pubblicato su AGI
