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Università di Perugia, individuata una nuova forma di leucemia acuta

Lo studio è stato coordinato dalla professoressa Cristina Mecucci, ordinaria di Malattie del sangue. Alla base di questo tumore aggressivo c’è un’anomalia cromosomicaLo studio è stato coordinato dalla professoressa Cristina Mecucci, ordinaria di Malattie del sangue. Alla base di questo tumore aggressivo c’è un’anomalia cromosomica

Ai passi in avanti che la ricerca ha compiuto nel corso degli anni nello studio e nel trattamento dei tumori del sangue se ne aggiunge un altro. Il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia ha identificato una nuova forma di leucemia acuta, aggressiva, frutto di un’anomalia cromosomica rara. Lo studio, coordinato dalla professoressa Cristina Mecucci, ordinaria di Malattie del sangue, è stato pubblicato sulla rivista Blood e ha individuato come responsabile di questa tipologia leucemica un gene chiamato BCL11B.

Sono trascorsi diversi anni dal primo caso che ha dato il via alla ricerca e ancora del tempo dovrà passare prima di poter stabilire una terapia specifica. Tuttavia, il risultato raggiunto dall’equipe perugina apre importanti possibilità nell’ottica del trattamento e dell’assistenza dei pazienti, fasi in cui il ruolo dei donatori sarà determinante.

 

Cristina Mecucci università di PerugiaLa professoressa Cristina Mecucci

Professoressa, prima di tutto ripercorriamo le tappe di questo studio.

«I primi passi abbiamo iniziato a muoverli qualche anno fa. Si tratta di un percorso lungo avviato dopo il caso singolo di un paziente con un’anomalia cromosomica molto rara: questo fatto ha richiamato la nostra attenzione per cercare di comprenderne il significato e le origini. Da qui siamo partiti per identificare i geni che contribuivano al “ri-arrangiamento cromosomico”».

 

Cosa avete riscontrato precisamente?

«Alla prima anomalia cromosomica se ne sono aggiunte altre, sempre però coinvolgenti il gene BCL11B che è molto importante nel normale differenziamento dei linfociti nel timo (una ghiandola collocata nel torace, davanti alla trachea, la cui funzione principale è quella di garantire la maturazione, appunto, dei linfociti T, ndr). Facendo un raffronto tra le malattie che ne conseguivano, ci siamo accorti che ogni volta si trattava di leucemie acute immature che, come comun denominatore, avevano appunto questa anomalia. Che fossero mieloblastiche o linfoblastiche alla base delle leucemie c’era sempre la variazione di questo gene, un gene che è comune ai diversi fenotipi e coopera con altri geni che contribuiscono all’identikit della malattia».

 

Come è stato possibile risalire a questa nuova malattia leucemica?

«Noi siamo partiti da un test chiamato FISH (Ibridazione In Situ Fluorescente, ndr) una tecnica sofisticata di citogenetica molecolare molto utilizzata non solo nella ricerca, ma anche nella diagnostica in ambito ematologico e oncologico. Consiste nel riconoscere i geni nelle cellule attraverso l’uso di sonde di DNA che sono complementari e quindi si “agganciano” al gene che si vuole individuare. Queste sonde sono legate ad un colorante per cui al microscopio si valuta se sono normalmente agganciate al DNA della cellula leucemica oppure no».

 

In cosa si differenzia questa forma rispetto a quelle già conosciute? È più grave?

«È una tipologia aggressiva che risponde poco alle terapie correnti. Solo fornendo un’etichetta genetica che corrisponde a una malattia precisa è possibile, teoricamente, stabilire anche una terapia precisa. Per ottenere tutto ciò, bisogna indagare sulle anomalie che vi sono alla base, un percorso sul quale abbiamo costruito un nuovo test diagnostico e che oggi consente di poter differenziare la leucemia con attivazione di BCL11B, di cui parliamo, da altre forme più conosciute».

 

Gruppo di ricerca università di PerugiaIl gruppo di ricerca coordinato dalla professoressa (al centro nella foto)

Può colpire a prescindere da sesso e fascia d’età?

«Ad oggi abbiamo identificato una ventina di casi, compresi anche quelli segnalati da centri con cui collaboriamo. Non possiamo stabilire con certezza se vi siano fasce d’età più a rischio di altre, ma siamo in grado di affermare che può colpire indiscriminatamente chiunque, anche in età pediatrica».

 

Che prospettive può aprire questo studio?

«Sicuramente conoscere la diagnosi è fondamentale per salire al gradino successivo, quello cioè dell’individuazione della terapia specifica. Tra scoperta in laboratorio e applicazione clinica, il percorso da compiere è lungo e richiede tempo. Oggi viviamo in un mondo in cui le tecnologie sono tali da rendere i test molto più accelerati e la sperimentazione più rapida. Speriamo che tutto questo sia sempre maggiore anche qui in Europa. Per quel che ci riguarda, abbiamo già testato alcune molecole che inciderebbero su questa forma leucemica. L’obiettivo è quello di giungere a una terapia bersaglio in grado di attaccare la lesione molecolare, anche coadiuvando le attuali chemioterapie e portare i pazienti anche al trapianto di midollo».

 

Quanto, in tal senso, può risultare utile l’impegno dei donatori di sangue?

«Lo dico con tutta sincerità, i donatori di sangue sono una meraviglia. Rappresentano la più grande collaborazione su cui i pazienti possono contare durante il loro percorso terapeutico. Un gesto eccezionale ed eccellente che garantisce supporto nel corso delle terapie, del trapianto e nelle diverse fasi delle malattie. Questo ruolo è fondamentale già di per sé, e naturalmente è importante anche in questa forma di leucemia. Pertanto, il raggiungimento di un risultato come questo rappresenta una soddisfazione per tutti. Dal punto di vista dei donatori più la malattia è conosciuta e aggredibile, più aumenta l’utilizzo ottimale del sangue donato. Ecco perché sono sempre più preziosi».

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