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In fuga dalla guerra in Etiopia e donatrice con Avis Ragusa, la storia straordinaria di Girma

Siccità, carestiaSiccità, carestia

Siccità, carestia. Esistono zone del mondo in cui basta una di queste due condizioni perché si generino proteste violente, meglio conosciute come guerre civili. Paesi tanto meravigliosi, quanto troppo spesso dimenticati, in cui il futuro, per molti, è quasi sempre un miraggio impossibile da raggiungere. C’è chi però quel futuro lo vuole a tutti i costi, per sé e per chi, si spera, un giorno arriverà: i figli. Ed è disposto a tutto, pur di ottenerlo: anche di lasciare la propria terra, i propri affetti, la propria storia. Perché sopravvivere, anzi, vivere, è un qualcosa di irrinunciabile. Per chiunque. L’Etiopia è uno dei Paesi che, insieme a Eritrea, Gibuti e Somalia, formano il cosiddetto Corno d’Africa, una vera e propria penisola di terra, nella parte orientale del continente, che si affaccia sul golfo di Aden. I primi anni del 2000 sono gli anni in cui, proprio in Etiopia, siccità e carestia, sommate alle tensioni che avevano fatto seguito alle elezioni politiche, generano scontri, arresti, morti. Tanti. Troppi. Addis Abeba è la capitale. Qui, insieme a oltre 3 milioni di abitanti, vive Girma. Gioca a pallacanestro, ma nel 2007 capisce che il suo futuro non può più essere lì: «Ho deciso di partire, perché i conflitti stavano rendendo impossibile continuare a restare a casa». Girma attraversa il Sudan, poi arriva in Libia e da lì si imbarca: per il suo futuro ha scelto l’Italia. Arriva a Crotone, ma quasi immediatamente riparte alla volta di Ragusa. Lì la aspetta Gioia, la sorella, e anche l’amore, ma Girma ancora non lo sa: «È stata lei a presentarmi mio marito, Sanson, con cui ci siamo subito piaciuti, ci siamo sposati e abbiamo costruito la nostra famiglia con due splendidi bambini. Fortuna, la più grande, che ha 12 anni, ed Emanuele, che tra poco ne compirà 10». Girma inizia a lavorare per un’azienda che produce sale. È in Italia con lo status di rifugiata politica, ma come lei stessa racconta «sono in attesa dell’ultimo documento che confermi la cittadinanza italiana». Conoscere le difficoltà, sapere cosa significa aiutare chi ha bisogno, per lei che da Ragusa e dal nostro Paese è stata accolta e grazie a cui può guardare con fiducia al futuro, sono stati i valori che hanno portato Girma a voler ricambiare tutto ciò iniziando a donare il sangue. È il 2017 e anche qui c’è lo zampino della sorella: «È stata lei a dirmi che potevo rivolgermi all’Avis della nostra città perché anche lei è donatrice. Io stessa, quando ancora ero in Etiopia, donavo e quindi mi è sembrato giusto continuare anche qui». Ci ha provato anche il marito, Sanson, ma a causa della pressione alta emersa dagli esami di routine effettuati, non ci è riuscito: «Per me è molto bello fare un qualcosa che permette a tante persone di potersi curare – spiega Girma – è un gesto tanto piccolo, quanto importantissimo e mi fa stare bene». I volontari e tutto il personale della sede l’hanno accolta con grandissimo entusiasmo, non a caso l’Avis di Ragusa conta donatori stranieri provenienti da quasi 40 Paesi differenti: «Quello che posso fare è aiutare gli altri con poco e per me è bellissimo sapere che con il mio gesto contribuisco a salvare altre vite. È un modo per ricambiare l’accoglienza che ho ricevuto arrivando qui, per questo ne parlo con i miei amici invitandoli a fare la stessa cosa». Un sentimento di collaborazione e riconoscenza che lo stesso presidente Paolo Roccuzzo ha voluto sottolineare: «Siamo tutti noi a ringraziare Girma per quello che fa, per come ci aiuta e per l’atteggiamento con cui è entrata in questa nostra grande famiglia. Una lezione di vita e di umanità di cui dobbiamo tutti fare tesoro». A inizio marzo, prima che scattasse il lockdown per il Coronavirus, è stata l’ultima volta che ha donato. Quel Coronavirus che, da qualche settimana, sta provocando un aumento di contagi anche in Etiopia, dove Girma ha lasciato un’altra sorella: «Sono molto preoccupata, perché da noi non ci sono tutte le precauzioni e il livello di assistenza che c’è qui in Italia. E purtroppo, con i documenti che ho, non posso farla venire a Ragusa». Tra poco tornerà a donare, ma sull’ipotesi di tornare invece un giorno ad Addis Abeba, risponde così: «Non credo, la mia vita ormai è qui. Anche mio marito lavora e i nostri figli si sono integrati. La nostra casa è qui in Italia».

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